I superstiti raccontano
"Meditate che questo è stato. Vi comando queste parole"
Primo levi
Tutti gli eventi narrati di seguito fanno riferimento a situazioni, luoghi e persone reali. Questa è la testimonianza diretta di chi visse da partigiano l'angoscioso biennio 1943-1945.
SETTIMO RACCONTA LA SUA
RESISTENZA
(fonte: "Il partigiano Settimo", redattore Valerio Bonaretti)
Era la primavera del 1943.
L'Italia tutta era allo stremo: la lunga guerra aveva fiaccato gli animi ancor prima dei corpi e il regime fascista, sempre meno popolare, iniziava a vacillare.
In marzo alcuni clamorosi scioperi, i primi dall'avvento del fascismo e gli unici nell'Europa occupata, avevano scosso a partire da Torino tutte le principali città del nord.
A Milano, Genova, Bologna, Reggio Emilia iniziavano ad organizzarsi le prime bande di volontari che, per due lunghi e logoranti anni, avrebbero combattuto contro i briganti neri.
A Luzzara, l'antica torre campanaria assisteva, benedicendola, alla nascita dei primi nuclei partigiani che avrebbero riscattato, di lì a pochi anni, il paese.
Noi ragazzini di quindici-sedici anni, privati da tempo della nostra adolescenza, figli del Po e della Pianura, ci sentivamo prima di tutto figli di antifascisti: nelle vene degli Avanzi, degli Scaini, dei Dalai, dei Tagliavini, dei Filippini, scorreva sangue democratico e liberale.
Man mano che la primavera avanzava, io che fino ad allora mi ero sempre astenuto, titubante com'ero, ad avventurarmi nei meandri della politica, iniziai, non ricordo bene perchè, a frequentare Arnoldo (Avanzi).
Come avrei capito solo molti anni dopo, pregando sulla sua tomba a guerra finita, Arnoldo mi conquistò col carisma, la personalità e la grande sensibilità coi quali era riuscito a svegliare il mio spirito democratico ed egualitario dal lungo letargo dittatoriale in cui si era assopito.
Una sera di fine primavera, nel pioppeto della golena del fiume, il mio "maestro" propose a me a ad altri miei coetanei di costituire, insieme a lui a ad altri luzzaresi veterani, un nucleo di partigiani a Luzzara.
Senza pensarci troppo, istintivamente, con il sangue che mi ribolliva nelle vene e la mente che vagava nei vividi ricordi di quella misera infanzia finita ancor prima di iniziare e portatami via dall'uomo nero, accettai di buon grado la sua proposta. Arnoldo, compiaciuto, mi consegnò una tessera mangiucchiata dal tempo e mi disse che di lì a poco ci saremmo messi a fare sul serio.
Detto questo mi salutò.
Giunto a casa, mostrai orgoglioso la tessera a mio padre.
Quel minuscolo e ingiallito rettangolo di carta, pensavo, mi avrebbe fatto uomo.
Io che fino ad allora ero stato solo un ragazzotto ingenuo, avevo la possibilità di mostrarmi, agli occhi di mio padre, talmente maturato da essere pronto a rischiare la vita per un qualcosa di tanto etereo e intangibile come solo un ideale può essere.
Solo allora, quando nel mostrargli la tessera ricevetti in cambio un sorriso di approvazione, venni a conoscenza del fatto che anche lui, da quattro mesi, ne possedeva una identica.
Non mi sbagliavo: quel pezzo di carta, quell'ideale, quella parola: "Antifascista", scritta con inchiostro nero, mi aveva fatto uomo.
Quella sera, per la prima volta, captai la fragranza di antifascismo che aleggiava in casa mia; riuscii a rendermi conto della miseria nera in cui vivevamo e del perché mio padre, anni addietro, quando lo Stato lasciò la popolazione nella miseria e nella disoccupazione per intraprendere la disastrosa Campagna di Grecia, aveva gettato la bandiera italiana nel gabinetto.
Quella sera esplose dentro le mie viscere l'odio antico, vecchio di generazioni, per quei benestanti che guardavano storto noi gente povera e che la pensavano proprio come quel ignorante. (Mussolini, ndr).
Per la prima volta, quella sera mi domandai:"Perchè" Perché devo vivere così, non avendo colpa di niente" Questa secondo me non è vita: non può essere vita!" Di colpo capii perché a scuola, mentre tutti gli altri avevano la divisa di lana da Balilla e stavano al caldo, io pativo il freddo.
Mi resi conto del perché, quando d'estate, sulle rive del Po, la Colonia dei Figli d'Italia distribuiva panini al latte farciti con burro e marmellata, io mangiavo pane raffermo.
Solo per una tessera di partito che mio padre non voleva avere.
E mentre mi chiedevo:"Perchè devo andare a letto alle cinque, avendo diciassette anni"", capii il senso profondamente bilioso della risposta di mio padre: "Eh, perché quelli che comandano vogliono così."
Mi resi conto finalmente che quella parola: "Antifascista", ancor prima di capitarmi tra le mani su quella tessera, mi aveva silenziosamente accompagnato dal giorno della nascita, marchiandomi a fuoco vivo il cuore. Ed era proprio il mio cuore, livido per quella vecchia ustione, che quella sera pompava nelle mie vene il sangue rosso e vitale della Resistenza, della lotta contro la guerra, del patriottismo, della fratellanza internazionale, del coraggio e dellamore per la terra e la famiglia.
Quella tessera tuttavia, non era una tessera di partigiano: era una semplice tessera di antifascista, poiché il nascente movimento partigiano non era si ancora dato una gerarchia e una struttura interna, cosa che sarebbe avvenuta solo nella metà del 1944 con la costituzione del CLN e del CLNAI, articolati nelle GAP e nelle SAP.
Alla fine del 1943 lepopea partigiana viveva soltanto di azioni isolate portate a termine da bande partigiane senza un piano dazione comune e senza un coordinamento generale.
Di lì a pochi mesi, comunque, la promessa fattami da Arnoldo divenne tangibile realtà.
Una sera di maggio del 1944, io e sette miei compagni ci vedemmo convocati nel bosco della Golena di Po. Pensammo ad una delle ormai abituali riunioni segrete che da alcuni mesi riempivano le nostre serate, facendoci scordare il coprifuoco delle cinque.
Quella volta però, lo scenario che si spalancò davanti ai nostri occhi era diverso.
Cera molta più gente, quindici-venti persone contro le tre o quattro che di solito incontravamo, e il luogo del ritrovo era silenzioso, quasi pervaso da una sorta di austera e mistica solennità.
I nostri compagni che ci aspettavano, il povero Adolfo (Tedeschi), i Bonaretti, i Dalai, gli Avanzi, non ci accolsero con la solita goliardìa e notammo un qualcosa di misterioso e di insondabile dei loro sguardi.
Il sole rosso del tramonto, incontrando i loro occhi consumati dallansia, faceva baluginare di tanto in tanto riverberi di trepidazione ed eccitazione.
Arnoldo si mostrò il più risoluto e il più temerario nellannunciare che avevamo atteso fin troppo a lungo e che era giunto il momento di scendere in azione.
Lui ed Ermes (Ferrari), che da qualche mese avevano stabilito contatti coi partigiani della montagna e che sapevano cosa stava accadendo nel resto dItalia, spiegarono a noi nuove reclute che essere partigiano avrebbe significato esporsi giornalmente al pericolo e che si sarebbe dovuto prestare molta attenzione, in ogni momento e in ogni ora del giorno e della notte.
Ci dissero che forse qualcuno di noi non avrebbe visto il giorno in cui avremmo scacciato i fascisti, che alcuni nostri compagni avrebbero lasciato le carni straziate nelle città date al nemico; ci avvertirono che la Brigata Nera non avrebbe avuto pietà di noi se ci avesse catturato; esortarono chi non se la sentiva ad abbandonare; fortificarono lo spirito di chi era pronto ad immolarsi per la libertà.
Quella sera nascemmo una seconda volta e una seconda volta fummo battezzati, non nella fede cattolica ma in quella dellIdeale Partigiano: da quel momento mi sarei distinto sul campo col nome di Settimo.
In quel bosco, quella sera, nacque la Resistenza Luzzarese.
Dei ragazzi che quel giorno strinsero un patto di sangue allombra dei pioppeti del Grande Fiume, sette furono fucilati a Reggiolo il 14 aprile 1945; due furono impiccati a Casoni; Adolfo (Tedeschi) trovò la morte al fortino di Sparavalle, Erminio (Filippini) venne catturato e imprigionato a Bolzano e altri sette trovarono la morte.
Soltanto io, Francesco (Berni), Rino (Bonaretti), vice-comandante dei partigiani di Luzzara, Davide (Bonaretti) che era mio compagno di scuola, Marzio (Fornasari), Roberto (Bonaretti), Dino (Scappi), Neves (Guaita), Giulio "il marinaio" (Artoni), che era il custode delle munizioni e delle armi trafugate ai fascisti, Vincenzi, Bruno (Ferrarini), il dottor Marani, che in tempo di clandestinità curava i partigiani e Amedeo "magnòs" (Scardova) avremmo visto la fulgida luce del 25 aprile.
Dopo pochi giorni dalla sera dellinvestitura, ancora impacciati nel doverci chiamare con i nostri nuovi nomi di battaglia, venne ufficializzata la nostra appartenenza al movimento partigiano e fummo quasi tutti arruolati nella Settantasettesima Brigata SAP.
Tuttavia, poiché nella realtà luzzarese non esisteva una vera e propria organizzazione paramilitare di partigiani, più che prender parte ad azioni di guerriglia armata, ci limitammo ad azioni di supporto verso quella parte di popolazione, contadini mezzadri e fittavoli, solidale con noi e con i nostri ideali.
La mia prima azione infatti, portata a termine insieme ad Erminio Filippini, consistette nel marciare nottetempo verso i Vergari, dove avremmo dovuto assaltare una la fattoria di un ricco latifondista e ammazzare il maggior numero possibile di maiali.
Con quei maiali sfamammo le famiglie luzzaresi più bisognose per una settimana.
Durante unaltra azione invece, ci intrufolammo nel caseificio di un benestante luzzarese che si diceva essere amico dei fascisti e rubammo alcune forme di formaggio e molti sacchi di sale che avremmo poi distribuito ai luzzaresi nei giorni a venire.
Le nostre azioni inoltre, erano mirate a intimorire quei pochi fascisti che ancora si ostinavano nel voler adulare loperato del loro Duce. Una notte, una banda di partigiani fece irruzione nella stazione ferroviaria per dissuadere il capostazione di Luzzara dal continuare il suo lavoro di propaganda, intimorendolo.
Nella stazione, i partigiani trovarono una macchina da scrivere e Davide Bonaretti decise di portarla con sé per "donarla" ad Erminio (Filippini) che, essendo capace di utilizzarla, avrebbe potuto scrivere dispacci e lettere per i compagni dei paesi vicini.
Quella stessa sera, inoltre, unaltra banda di compagni andò...non ho mai saputo dove... ad ammazzare delle mucche, per poi portarle al macello e distribuirne le carni fra i luzzaresi più poveri.
Eravamo partigiani atipici: noi combattevamo la nostra guerra contro la fame e la miseria armeggiando con maiali e formaggi e quando il povero Adolfo (Tedeschi) sarebbe caduto, mesi dopo, sui monti di Reggio in un impeto di odio e di ardore per la grande riscossa, avremmo solo potuto sforzarci di immaginare la cruenta battaglia che lacerò il cuore suo e dei suoi compagni ribelli.
Ma i ribelli della montagna, per combattere, avevano pur sempre bisogno di munizioni e di artiglieria, e siccome le nostre zone erano adibite dai nazifascisti a deposito delle armi, noi partigiani della Bassa eravamo incaricati di rubare i preziosi armamenti da spedire sui monti.
Noi luzzaresi in particolare, avendo la fortuna di ospitare in paese lospedale militare (presso lattuale Istituto Lorenzini, ndr) ci limitavamo principalmente a spogliare delle loro armi i feriti tedeschi reduci dal fronte e a custodire lartiglieria confiscata nella cantina di Giulio Artoni.
Nonostante ciò, le munizioni non erano mai abbastanza e spesso eravamo costretti a rischiare in prima persona, assaltando plotoni fascisti o depositi dismessi.
Una notte fummo incaricati di trafugare delle munizioni da un deposito-polveriera che si trovava nelle campagne tra Luzzara e Reggiolo.
Fu così che noi comunisti ci ritrovammo a marciare attraverso i campi arati, fianco a fianco, coprendoci le spalle a vicenda, con le Fiamme Verdi della Democrazia Cristiana di Reggiolo.
Il terreno sconnesso e la luna oscurata da nubi minacciose, rendevano traballante il cammino del povero Adolfo che inciampava in continuazione e bestemmiava.
Lavanguardia della DC allora, si voltò e puntò la mitraglia fissa su di lui: "Se non la smette" dissero "facciamo fuoco". Dopotutto restavano sempre dei democristiani: non potevano nominare il nome di Dio invano...
Quando giungemmo al deposito di munizioni, un ragazzino alla sua prima uscita pensò che sarebbe stato utile avere un po di luce per poter mettere da parte le mine anticarro e riempire i nostri borsoni con le munizioni. Così accese un fiammifero.
Avio, il Comandante Partigiano di Fabbrico che poi sarebbe divenuto Capo della Polizia Partigiana a Luzzara, gli puntò una beretta sotto la gola: "Ma io ti ammazzo!" disse: "E' mai possibile compiere delle stupidaggini simili!"
Linesperienza e lavventatezza che quella sera obnubilava la mente di quel ragazzino di non più di tredici anni sarebbe stata la stessa che, mesi dopo, avrebbe posto fine al mio partigianato a Luzzara.
Durante gli ultimi mesi del 1944, la mia famiglia aveva la fortuna di poter contare sul salario che mio padre, impiegato nei lavori per la costruzione dellargine maestro, portava a casa mensilmente.
In casa mia quindi il cibo non mancava.
Così non era invece per il povero Adolfo e Artoni "il marinaio", che, spesso venivano a cenare a casa mia. Una sera, probabilmente grazie ad una soffiata, la Brigata Nera riconobbe Artoni che entrava dalluscio di casa mia e, dopo aver fatto irruzione, ci portarono tutti e tre in caserma.
Dopo linterrogatorio, il comandante Mora della Brigata Nera e il camerata Campano che infieriva sui nostri corpi, ci separarono e, rivolgendosi a me e a Giulio (Artoni), ci accusarono di far parte delle bande partigiane luzzaresi.
Io negai.
Dopotutto avevo solo sedici-diciassette anni e non ero ancora stato a militare. Come potevo anche solo saper maneggiare unarma"
Fortunatamente il giorno dopo mi rilasciarono, ma durante l'interrogatorio notai sulla scrivania del comandante una lista che conteneva i nominativi di tutti i luzzaresi sospettati di sovversione: su quella lista lessi, come in un triste presagio, i sette nomi di chi, di lì a pochi mesi, sarebbe stato fucilato a Reggiolo, oltrechè i nomi delle "staffette" Dora Tagliavini e Tiziana Tacconi.
Appena libero dalle mani rinsecchite dei camerati, corsi ad avvisare i miei compagni del pericolo che correvano restando a Luzzara: dissi loro che i fascisti sapevano e che, per quel che mi riguardava, sarei fuggito a Parma, dove avrei trovato ospitalità presso alcuni amici.
Quindi partii in bicicletta per Parma da dove sarei ritornato solo il 27 aprile del 1945, a Liberazione avvenuta.
Artoni, mio compagno in quella sventurata nottata trascorsa in caserma, si aggregò con il contingente che quella notte sarebbe partito per i monti, ripercorrendo la strada di chi, come Mario Scardova già dagli inizi del 1943, per scampare alle persecuzioni delle Brigate Nere, era fuggito a "li Brùschini", presso Ronchi di Palidano, dove arrivavano, una volta a settimana, i furgoni dalla montagna per far rifornimento di armi e munizioni trafugate da noi partigiani di pianura, oltrechè di vettovaglie e di volontari.
Per i ragazzi che invece rimasero a Luzzara, forse fidandosi troppo, forse troppo temerari, non ci fu niente da fare.
I loro nomi erano sulla bocca di tutti: ogni luzzarese sapeva che erano partigiani.
E dopotutto, da parte nostra, non c'era mai stato il minimo tentativo di celare le nostre intenzioni: eravamo dei ragazzi di quindici-diciotto anni, agivamo senza pensare, non concepivamo l'idea di poter rischiare veramente la vita, nè ci curavamo degli occhi indiscreti che ci scrutavano quando uscivamo per strada.
Ricordo che una mattina, ancora prima di ricevere i nostri nomi di battaglia, Adolfo (Tedeschi) bussò alla porta di casa mia dicendomi di seguirlo nel bosco perchè doveva provare una pistola nuova.
Nel pioppeto che mesi dopo ci avrebbe visto giurare vendetta per i nostri morti, la pistola esplose diversi colpi sotto gli occhi terrorizzati di due donne che andavano per legna.
A Luzzara poi non sapevi mai se la persona con cui parlavi era un amico o un nemico.
Ricordo che un giorno entrai in un bar.
Era il periodo in cui agli antifascisti seduti al bancone servivano olio di ricino e bastonate.
Mi sedetti vicino ad un tavolo da biliardo guardando come si svolgeva il gioco.
Senza sapere bene il perchè, sollevai lo sguardo e vidi che sopra la mia testa, quasi fosse destino, aleggiava come una spada di Damocle un ritratto del Duce.
Improvvisamente, senza che io lo sfiorassi, il ritratto cadde fragorosamente a terra.
Ricevetti tante padate nel sedere quanti erano i metri che, sulla via del ritorno, dividevano il bar da casa mia. E l'esecutore di quel supplizio fu quello stesso ragazzo con cui, prima della guerra, passavo le mie giornate spensierate.
Quando ritornai a Luzzara sul convoglio del dutur Marani che tornava vittorioso dalle montagne per essere acclamato a furor di popolo Sindaco provvisorio del paese, la guerra era finita e i briganti neri non infestavano più le nostre campagne.
Solo più tardi seppi che i primi partigiani luzzaresi a essere catturati furono Marzio Fornasari, Erminio e Franco Filippini. Un plotone distaccato della X° MAS, in marcia verso Bologna, li sorprese alle porte di Luzzara con delle armi in pugno e li condusse al giudizio della temibile Brigata Nera di Guastalla. Quella fu la loro rovina: se fossero stati consegnati alla Brigata Nera di Luzzara, difficilmente sarebbero stati condannati.
Fornasari riuscì a scappare al plotone d'esecuzione; Erminio Filippini fu internato a Bolzano, ma il fratello Franco ...era in gamba Franco! Accidenti com'era bravo!... venne fucilato a Guastalla in Piazza Mazzini. Seppi inoltre che nel rastrellamento di Luzzara del 12 aprile settanta uomini furono arrestati.
Cinquanta furono portati a Reggio Emilia per gli interrogatori; venti vennero condotti a Reggiolo a piedi, correndo per dodici chilometri, quindi sottoposti a torture indicibili nei due giorni a venire.
All'alba del 14 Aprile, presso il cimitero di Reggiolo gli altri miei compagni sappisti vennero brutalmente fucilati dai fascisti in ritirata.
Ripensai allora alle parole di Arnoldo, pronunciate due anni prima, quel giorno, nel pioppeto: "Qualcuno di noi non vedrà il giorno in cui scacceremo i fascisti. Alcuni nostri compagni lasceranno le carni straziate nelle città date al nemico" e piansi la morte dello stesso Arnoldo (Avanzi) e di Walter (Compagnoni), Enzo (Dalai), Balilla (Nodolini), Federico (Tagliavini), Claudio (Franchi), Lino (Soragna), Celestino (Iotti), Franco (Filippini), Fausto (Melli), Ermes (Ferrari), Selvino (Lanzoni), Luigi e Rino (Freddi), Attilio (Vezzani), Adolfo (Tedeschi), Mario (Fiocchetti).
I caldi raggi del nuovo sole d'aprile, ridestarono una Luzzara colma di Volontari della Libertà, mentre le truppe alleate si affrettavano a completare la Liberazione nazionale.
La torre campanaria, in piazza, andava gradatamente rischiarandosi di luce nuova dopo aver resistito, indomita, alla Nera Tempesta.
Dal cielo diciassette stelle d'argento, gagliarde d'avvenire, illuminarono le bare e le spoglie mortali di quei martiri della Libertà, figli del Po e della Pianura, che divennero adulti troppo presto e furono seppelliti dai loro stessi genitori.
La loro vita fu breve quanto un sospiro, ma la loro leggenda li rese immortali.
(fonte: "Il partigiano Settimo", redattore Valerio Bonaretti)
Quel giorno mi svegliai spossato, con le gambe pesanti e le dita dei piedi gelide, nonostante mi fossi premurato, la sera avanti, di coricarmi con le calze.
Avevo passato una notte tormentata e non avevo potuto godere degli effetti benefici del sonno ristoratore perchè angosciato dalle parole che Menelik (Arnoldo Avanzi, ndr) mi aveva sussurrato di sfuggita, in piazza, due giorni prima.
"Sanno ilnostri nomi... qualcuno ha cantato" mi aveva detto.
"Settimo mi ha giurato che la Brigata Nera è in possesso di un rapporto dettagliato sui ribelli luzzaresi! Lha visto con il suoi occhi mentre lo interrogavano e, appena libero, prima di fuggire per Parma, è corso ad avvisarmi... Stanno solo aspettando il momento migliore per catturarci tutti insieme... dobbiamo stare allerta".
L'anno 1944 volgeva al termine e un gelido inverno di guerriglia mi separava ormai dal giorno in cui legai la mia vita a quella dei miei compagni: tanto era passato dal giorno in cui il pioppeti del Grande Fiume tennero a battesimo la Resistenza luzzarese.
Mi alzai controvoglia, faticando a reggermi in piedi.
Barcollando, mi appoggiai allo schienale del letto con lo strano presentimento che il dolore alle gambe mi avrebbe accompagnato per parecchi giorni.
Avevo diciotto-diciannove anni, ma le mie membra spossate sembravano aver sopportato più di trenta inverni.
La nebbia aveva iniziato a diradarsi e di lì a poco, un sole bianchissimo penetrò nella camera riscaldandomi mollemente il volto e, al pari delle foglie che libere dalla brina notturna ormai sciolta riprendono a muoversi nel vento mattutino, il mio corpo ritrovò il suo antico vigore.
Mi vestii di buonumore e scesi per fare colazione.
I gelidi, mortiferi pensieri che mi avevano assillato tra le lenzuola si erano disciolti al primo sole e non sarebbero ricomparsi che alla sera, insieme alla brina invernale.
La giornata corse via rapidamente.
Nella piazza di Luzzara, all'ombra della grande torre campanaria, la popolazione tutta si sentiva sempre più convinta della prossima Liberazione e il Corvi Neri (i fascisti, ndr) lasciavano sempre più di rado il loro quartier generale, preferendo la sicurezza del nido littorio agli improperi sussurrati dalla piazza al loro passaggio.
Quando rincasai doveva essere poco più di mezzogiorno.
Venni a sapere che mentre ero fuori due compagni erano venuti a cercarmi e che, non trovandomi, dissero ai miei famigliari che sarebbero ritornati a sera, prima del coprifuoco (le cinque del pomeriggio, ndr).
Quella sera, quando la porta scricchiolò sotto un'energico bussare, il pallido sole delle sere d'inverno era ormai scivolato oltre l'argine maestro accompagnato da cinque rintocchi della torre campanaria.
L'oscurità e la lontananza di casa mia dal centro di Luzzara promettevano un incontro sicuro, lontano dagli occhi gialli dei Cani Neri.
Senza indugio, tra la curiosità e il timore di una sempre possibile retata, aprii il portone di casa.
Trovai ad aspettarmi Franco e suo fratello (Franco ed Erminio Filippini, ndr).
Senza perder tempo, mi chiesero di uscire sull'aia, per poter discutere lontano dagli sguardi dei miei famigliari.
Io acconsentii e ci trovammo a mischiare ricordi e speranze, notizie dal fronte (la Linea Gotica, sull'Appennino tosco-emiliano, ndr) e desiderio di rivalsa.
Ci compiacemmo della nostra Luzzara colma di Volontari della Libertà che aspettavano soltanto il momento migliore per la sommossa generale; Erminio raccontava che da alcuni giorni il ribelli della montagna, fragorosi come gli affluenti del Po, scendevano dall'Appennino per rinfoltire le fila partigiane della Bassa e che anche il leggendario Comandante Valerio (il patriota che a Dongo avrebbe poi fucilato Mussolini e la Petacci, ndr) aveva compiuto azioni di sabotaggio insieme ai compagni di Villarotta.
Franco mi mostrò le armi requisite a due squadristi che avevano avuto l'avventatezza di allontanarsi dal loro plotone durante una marcia notturna e mi predisse, gonfio d'orgoglio e di gioia, che di lì a pochi mesi avremmo rivisto sorgere il Sole della Libertà.
Persi nel nostro soporifero vagabondare, trasalimmo udendo una fragorosa scarica di mitra.
"Banditi, arrendetevi!"
Un terribile, mortale terrore mi infiammò il petto e pervase il mio corpo fino alle tempie e mi resi conto che dai miei occhi colavano calde gocce che mi rigavano il volto infreddolito dalla bruma.
Le gambe, fredde e legnose, tornarono pesanti e dolenti, come al momento del mio risveglio, quella mattina.
"In alto le mani, banditi!"
Ubbidimmo senza neppure voltarci, ignari di chi fossero il nostri aguzzini.
Con lo sguardo perso fissammo il muro di casa mia, mentre neppure le nostre orecchie, ancora offese dal fragore dei colpi esplosi, ci permisero di intendere chi fossero il nostri aggressori.
Sei ruvide mani spuntarono sotto le nostre ascelle per perquisirci.
Erano già trascorse le cinque: l'ora del coprifuoco era scoccata.
Era palese che chi ci aveva intimato l'alt ci sospettava partigiani.
Quando trovarono le pistole requisite agli squadristi, fummo scaraventati nel fango da un terribile colpo alla schiena.
Tentai di voltarmi, ma un poderoso calcio all'altezza del ventre mi spezzò il respiro.
Caddi a terra, insieme a Franco ed Erminio.
Il dolore si impossessò dei nostri corpi e, quando ci riavemmo ci trovammo carponi a fissare gli stivaletti neri di pelle ammuffita del gerarca che stava infierendo su di noi.
Gli altri squadristi ci alzarono di peso, strattonandoci per il polsi, dopodiché ci legarono le mani e ci spinsero via mettendosi in marcia.
Non ebbi neppure il tempo di voltarmi per guardare, forse per l'ultima volta, il casolare che mi aveva visto bambino.
Con lo sguardo fisso sui miei passi, percorsi gli ultimi metri che separavano l'aia dallo sterrato.
Sorrisi beffardamente ricordando che in un rovente pomeriggio di dieci estati prima giocavo a rincorrere le galline su quella stessa aia che ora mi vedeva trascinato via al pari di un assassino, martoriato dai colpi degli squadristi e dal freddo pungente del vento della sera.
Intorno a me, le ultime, rinsecchite foglie restavano immobili sugli alberi, intrappolate nella ragnatela ghiacciata che la brina aveva tessuto per loro.
Il vento portò il suono dei rintocchi della torre. Erano le sei.
Quel suono sempre uguale, che cadeva blando, somigliava un malinconico addio, nel freddo della sera.
"La Gioventù dItalia è con la Decima!" latrarono idrofobi il nostri aguzzini.
Guardai Franco ed Erminio.
Nessuno di noi parlò.
Restammo in silenzio, marciando fianco a fianco, ma distanti secoli l'uno dagli altri.
Rimanemmo soli con la nostra solitudine, ripensando alla nostra breve vita rubata, agli ultimi mesi trascorsi cercando la Libertà, alla nostra terra natìa e all'unico rimpianto di non aver salutato, prima di uscire di casa, le nostre mamme e il nostri papà.
La nebbia della notte ci inghiottì.
Eravamo stati catturati da un manipolo distaccato della Decima MAS che, in viaggio verso Bologna, avrebbe colto l'occasione per condurci al cospetto della truculenta Brigata Nera di Guastalla.
Il viaggio non durò che una ventina di minuti, poi l'autocarro si arrestò davanti ad un portone scuro.
Fummo scaraventati a terra e, cadendo, sbattemmo contro gli usci maleodoranti e umidi di pioggia del quartier generale fascista.
I militi di Guastalla ci presero in consegna e, protendendo il braccio destro nel saluto romano, si separarono dagli squadristi della Decima che ripresero il viaggio alla volta di Bologna.
Fummo condotti in uno stanzone incolore, freddo, silenzioso come un acquario o come una visione onirica.
Il silenzio che ci accompagnava, iniziato al momento della nostra cattura, durava ormai da un'ora e si interruppe soltanto per volontà altrui, quando il gerarca di Guastalla entrò nello stanzone per gli interrogatori intimandoci di parlare.
Torturarono Franco.
Lo presero a calci, lo schiaffeggiarono e lo colpirono coi calci dei moschetti.
Lo vidi piangere e digrignare il denti per sopportare il dolore.
Insanguinato, pesto e rovinato, dai suoi occhi silenziosi colarono calde le lacrime dei martiri, ma il segreti che custodiva restarono intatti nella loro purezza: nessun fascista avrebbe mai potuto allungare le luride mani sanguinarie su di essi.
Stramazzato al suolo per il dolore insopportabile, Franco perse il sensi senza un lamento, coperto di rivoli scarlatti.
Il gerarca si voltò allora verso di me.
Ma la mia mente vagava già nei ricordi, forse per preservarsi integra non prestando attenzione all'inferno che si scatenava intorno a me.
Ricordai la mia prima notte da partigiano, di ronda con alcuni compagni di Fabbrico; ripensai con forza al mio paese, al Po, alla mia fanciullezza.
Ripensai a quando, da piccolo, venni a Guastalla e passeggiai con la mia famiglia sul marciapiede antistante la caserma dove mi trovavo quella notte: pensai che se fosse stato giorno avrei potuto vedere, come allora, il bosco aldilà dell'argine.
Di giorno... nella mia mente la gelida notte invernale svanì.
Era giorno, era estate, e io correvo per la campagna.
Il sole d'agosto mi scaldava il volto e mentre saltavo oltre un fosso correndo per il campi arati ebbi la sensazione di cadere e di farmi male alla schiena e mentre affondavo nell'acqua fredda e scura sentii un peso premermi sulla faccia e udivo le grida mischiate agli schiaffi e il camerati urlare impazziti e la voce e ilpassi dell'ufficiale e sentivo il dolore delle ferite gonfie e aperte.
Urlando improperi e chiamandoci "banditi", il gerarca ci fece incarcerare con l'accusa di essere dei sovversivi.
Saremmo stati giustiziati la mattina dopo, il 17 dicembre, nella piazza di Guastalla (l'attuale piazza Mazzini, ndr).
Venne così la notte, e fu una notte tale che esseri umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere.
Fummo condotti in una stanza più piccola, ma ugualmente fredda e disperatamente opaca e grigia.
Ci lasciarono soli.
Nemmeno il guardiano ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire.
Nelle epoche passate nei riguardi dei condannati a morte veniva allestito un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni collera si fosse ormai spenta negli animi dei moribondi.
Si evitava perciò al condannato ogni supplizio ulteriore, procurando che non sentisse intorno a sè l'odio e la punizione.
Ma a noi questo non fu concesso perchè il tempo era poco.
E poi, in verità, di cosa avremmo dovuto pentirci e di cosa venir perdonati"
Pochi sono gli uomini che sanno andare incontro alla morte con dignità, pochi sanno tacere rispettando il silenzio altrui: noi eravamo tra quelli.
La sete, la sofferenza per il freddo pungente e la fatica dellinsonnia erano rese meno penose dalla tensione dei nervi, ma quella notte fu un incubo senza fine.
Restammo abbandonati in unoscurità acquosa e senza fine.
Il pavimento della cella era ricoperto di segatura umida e puzzolente.
Appena uno di noi si muoveva si alzavano nel buio nuvole di polvere pizzicante e legnosa che andavano ad adagiarsi sulle ferite ancora sanguinanti, rinnovandone il bruciore.
Laria umida e ammuffita spezzava il respiro.
Mi resi conto di non aver mai pensato alla morte.
Mi credevo più forte e astuto di lei e anche se spesso ripetevo ai miei cari che avrei potuto morire da partigiano, il sangue non lo aveva mai creduto e si ribellava.
Che poteva saperne la morte dei miei sacrifici, delle veglie fatte sui letti dei miei cari e dei miei compagni, della certezza della mia causa, degli affetti, dei ricordi"
Cosa avrebbero fatto le nostre madri, sapendoci fucilati"
Loro che sapevano che prima o sarebbero morte, che anche il mondo sarebbe morto, ma che il loro figli no, non le avrebbero lasciate mai e che sarebbero sempre state a scherzare coi loro bambini che avevano cresciuto per anni, e per il quali la morte sarebbe restata sempre unestranea.
Pensai a quei prepotenti vestiti di nero che avevano portato lItalia allo sfascio; a comera bella Luzzara prima che quei Corvi Neri ne imbrattassero le vie e il muri con le loro sudice impronte; alla schiavitù nera in cui gli italiani erano stati precipitati; a quella bandiera, color del sangue che stava scivolando via dal mio corpo, che avrei voluto veder issata sulla torre del mio paese.
Mi ritrovai sperduto in una stanza buia ad ascoltare il respiro calmo e regolare di Franco ed Erminio.
Non avevamo più paura.
Saremmo caduti sotto il piombo fascista e lo avremmo fatto senza un lamento.
Il campanile di Guastalla suonò le tre di notte.
Quella litania ci colse come un tradimento: come se anche le campane si associassero agli squadristi nella volontà di annientarci.
Il tempo di meditare era finito e il rimbombo dei passi dei giustizieri che scendevano le scale si sciolse nel ricordo, doloroso come una ferita mortale, delle nostre case.
Il tintinnio metallico delle chiavi che girarono nella toppa della serratura ci fece trasalire.
Al rumore sordo del lucchetto che si apriva ci alzammo in piedi, senza dire una parola.
Ci fissammo negli occhi e in silenzio ciascuno di noi salutò nellaltro la vita.
Uscimmo dalla cella in fila, uno dietro laltro, scortati da una colonna di militi che ci circondava precludendoci ogni via di fuga.
Salimmo le scale, mentre alcuni fascisti appoggiati ai due lati dei gradini ci coprivano di schiaffi ed insulti.
Varcammo il portone da cui eravamo entrati qualche ora prima.
Lalba era ancora lontana e nella nebbia gelida si potevano indovinare soltanto le illuminazioni dei presidi fascisti. Tutto il resto era ombra.
Il freddo pungente della notte si insinuava nelle ferite, fin dentro le ossa indolenzite.
Le gambe mi facevano sempre più male.
Tuttintorno era silenzio.
Guastalla era deserta e potevamo udire distintamente lo scricchiolio delle nostre ossa mentre camminavamo, accompagnato dal tetro rumore metallico delle baionette fasciste puntate contro le nostre schiene inarcate.
"Mancano ancora otto giorni a Natale, ma la festa vogliamo farvela oggi..." ghignò uno degli squadristi.
Duecento metri separavano il palazzo della Brigata Nera dal luogo dellesecuzione.
Di lì a pochi minuti non sarei stato più.
Improvvisamente, un rumore di passi e unombra che svoltava in una viuzza deserta fece insospettire il fascisti.
Credo abbiano pensato si trattasse di un altro partigiano.
Non seppi mai chi era quellombra, né se fosse mai realmente esistita: so soltanto che mi salvò la vita.
I militi si distrassero dietro quellapparizione e, scostandosi appena gli uni dagli altri, aprirono un pertugio tra le camice nere che ci circondavano.
Iniziammo a correre.
Gli squadristi iniziarono a urlare.
Le gambe, protese nel supremo sforzo, non mi dolevano più.
La gelida nebbia che ingoiavamo respirando affannosamente bruciava in gola e gelava I denti.
Erminio e Franco, più lenti di me, scomparirono nella foschia.
Quando me ne resi conto, arrestai la mia corsa e tornai sui miei passi.
Un sibilo tagliò laria davanti a me.
Per un minuto tutto si annullò nella vertigine e nella sofferenza: mi ritrovai a terra, con tutti i muscoli contratti, la caviglia dolente stretta fra le mani.
Un proiettile mi aveva colpito di taglio la caviglia sinistra.
Mi rialzai a stento e tornai a cercare il miei compagni.
Ingoiato dalla nebbia, sentii il grido straziante di Franco che cadeva e terra e lurlo nero del fratello che gli correva appresso per sorreggerlo.
Soppraggiunsero gli squadristi e li catturarono.
Mi voltai nuovamente, con la morte nel cuore, e ripresi a correre.
Solo molti giorni dopo avrei saputo che lurlo lancinante di Franco era stato provocato da una scarica di mitra che gli aveva perforato le ossa delle gambe, impedendogli definitivamente la fuga.
Grondava ancora sangue dalle gambe spezzate quando venne trascinato in piazza e fucilato allalba di quello stesso giorno, di fronte al fratello Erminio che subito dopo sarebbe stato deportato e incarcerato a Bolzano.
Attraversai due isolati prima di fermarmi a riflettere.
Se fossi ritornato a Luzzara sarei stato catturato dopo pochi giorni e magari avrebbero preso anche mio padre e mio fratello.
Meglio fuggire lontano, aldilà del Po.
Ripresi a correre.
Attraversai le vie più strette e buie del paese e in pochi minuti mi lasciai alle spalle Guastalla.
Lodore pungente della campagna, della terra smossa imbibita di rugiada, mi solleticava la gola.
Procedevo a tentoni. La nebbia mi impediva di vedere oltre un palmo dal mio naso e il silenzio di morte che regnava intorno a me non mi permetteva di orientarmi in nessun modo.
Ma non potevo rallentare. Se avessi rallentato, se mi fossi fermato per riprendere fiato, avrebbero potuto raggiungermi.
Dovevo correre, solo correre.
Così continuai a trascinarmi dietro la gamba ferita, mentre la terra soffice e livida dacqua cedeva sotto il miei passi pesanti, facendomi affondare in una fanghiglia nera che infettava il profondo taglio sulla mia caviglia.
Sudavo. Scoppiavo di caldo nonostante laria ghiacciata che mi avvolgeva il volto screpolandone lepidermide.
Doveva essere quasi lalba quando arrivai nei pressi di Casoni.
Laria iniziava a riscaldarsi e la campagna gelata iniziò a mutarsi in uno squallido acquitrino maleodorante che rese irrespirabile laria nebbiosa e molle.
Nonostante la caviglia ferita, continuai a correre ininterrottamente per una decina di chilometri. Attraversai campi arati, fossi, strade deserte e corti di campagna senza mai fermarmi a riposare.
Dopo due ore, intorno alle sette di mattina, giunsi a Casoni, poi a Suzzara.
Lì trovai rifugio presso mio zio, il quale, sapendomi ricercato dai fascisti, decise di accompagnarmi a casa di parenti a Mantova, dove sarei stato al sicuro.
Giunti al ponte (sul fiume Po, ndr) di Borgoforte, mio zio mi consegnò la sua tessera della TOT (una fabbrica di artiglieria tedesca situata nel reggiano, ndr).
Io la mostrai con indifferenza ai due fascisti che stavano di guardia al posto di blocco, dicendo loro che ero stato incaricato di recarmi a Mantova per perfezionare lacquisto di una partita di acciaio.
Da veri ingenui, prestarono fede alle mie parole e mi permisero di attraversare il ponte.
Salutai mio zio e mi avviai verso la libertà, lasciandomi alle spalle il ricordo di quella notte.
Le gambe non mi dolevano più e anche la caviglia aveva smesso di sanguinare.
Durante quella lunga notte odorai la solitudine stantìa della galera, toccai il gelido terrore della morte, assaggiai langoscia amara del sentirsi braccato e il mortale dolore per la perdita di un amico strappatomi via.
Compresi subito che il ricordo di quelle ore cupe mi avrebbe accompagnato per sempre, finchè avrei respirato, finchè sarei vissuto.
La guerra però era ancora lunga e a quellepoca non potevo sapere se e quando avremmo cacciato quei briganti neri.
Avrei potuto rivedere la luce della libertà come avrei potuto cadere sotto il piombo nemico.
Ma ormai era giorno fatto e il fascisti, almeno per quella volta, non mi avrebbero più ripreso.